Less is more

Giulio manda un messaggio sul gruppo: «Domani mattina voglio andare al boschetto di Cerano, chi c’è c’è.»

Va bene, andiamo al boschetto di Cerano. Abbiamo due opzioni, la prima è il solito percorso da Casalabate, la seconda è andare da Sandonaci, Cellino San Marco, San Pietro V.co. E così scarico la traccia sul Garmin in modo da poter decidere insieme ai miei compagni di avventure senza patemi d’animo.

Sveglia alla solita ora, colazione con gli avanzi della pizza del sabato sera (base bianca, gorgonzola e grana a crudo, insomma non proprio il massimo per chi deve affrontare 70km in bici), altro che fette biscottate con la marmellata – come da manuale del perfetto ciclista – ma tant’è.

Giulio ed io usciamo senza fare rumore, con passo felpato che nemmeno CortanaLaMuscia, per evitare di svegliare Annalisa e Margherita, quando appena chiusa la porta ci rendiamo conto di aver lasciato le chiavi del garage a casa.

La giornata non è iniziata nel migliore dei modi, ma avrà modo di recuperare penso. E invece la stronzetta mette il carico da 90.

Infatti dopo nemmeno 10 km Giulio si sente male, ha dei conati di vomito, sensazione che ho provato tantissime volte, a cui ho fatto l’abitudine tanto che ho sempre preso due compresse di Peridon prima di ogni allenamento, e beh, avere una moglie farmacista ha qualche vantaggio.

Ma per Giulio è la prima volta.

Decidiamo che per il fortissimo vento di tramontana non è il caso di fare il giro “lungo”.

Arriviamo a Casalabate e sembra la “Fera te la Matonna” altro che zona gialla e divieto di assembramenti.

Tre banane e tre mandarini 1 euro, alla bancarella della frutta. Qualche foto dal risultato dubbio, causa accecamento da sole spaccapietre, due risate, qualche rutto e si riparte.

Ma non è giornata proprio, sento un rumore sordo, secco, forte! Ho fatto danno sicuramente ma non riesco a capire cosa è successo, cosa ho rotto.

Ma si sa che io sono cieco come una talpa, e per mia fortuna Santa (Anna) Lucia – protettrice della vista – mi indica un raggio della ruota posteriore che è spaccato in due, una parte è rimasta sul cerchio l’altra sul mozzo.

E mo’? Moplen!

Nastro adesivo e gli ultimi 6 km a pedalare in piedi per spostare il baricentro quanto più possibile in avanti.

Qual è la morale non lo so.

So soltanto che ogni tanto prendere qualche “schiaffetto” non fa male, è un modo severo ma giusto per tornare con i piedi per terra e il culo sulla bici.

E non fare capricci.

p.s.: l’uscita di oggi su Strava è:

⁃ “Ruggiero & Arturo” – Ric

⁃ “Eolo: compagno di pedalata” – AnnaLu

⁃ “Giro imprevisti” – Giulietto

Uno “sport di merda” – cit.

Uno “sport di merda” – cit.

Il ciclismo, a tutti i livelli, è uno “sport di merda”, lo pensano in molti anche e soprattutto gli automobilisti, ma non è di loro che voglio parlare.

E l’ho pensato tante volte anche io, con sfaccettature sempre diverse a seconda delle occasioni.

Ho iniziato a praticare questo sport in tarda età, nel 2004 dopo un bruttissimo infortunio alla caviglia sinistra (rottura di entrambi i malleoli) in una partita di calcio per beneficenza, quando per fare riabilitazione comprai una cyclette dalla Decathlon.

Una noia mortale stare a casa e pedalare anche due ore al giorno, io che ho sempre odiato anche andare in palestra perché luogo “chiuso” a casa mi sentivo in prigione tra stampelle e tutori.

Così decisi di comprare una mountain bike. Ne ordinai una di marca Whistle, nera, bellissima, ma senza grosse pretese, da neofita.

Iniziai a girare per le campagne del mio paesino, da solo. Una noia mortale anche questa, anche quando iniziai a pedalare al Castello di Sant’Elia o alla Madonna dell’Alto. E sì, sono incontentabile, ma questa non è una novità.

Per caso, in un negozio di biciclette di Salice Salentino, una sera incontrai Carlo. E fu la svolta!

Ci demmo appuntamento per la domenica successiva e da lì in poi le cose cambiarono drasticamente.

I giri in bici divennero sempre più frequenti e più belli, non mi annoiai più, anzi inziò il vero divertimento senza seguire tracce ma sempre improvvisando percorsi e senza una meta precisa.

Poi a noi si aggiunsero man mano tanti altri amici che avevano abbandonato e altri che iniziarono a pedalare con me.

La prima bici era ormai troppo “senza grosse pretese” e comprai una Specialized Epic full rossa (perchè nel frattempo avevo finito di pagare il mutuo per la casa, era il 2009).

Conobbi un sacco di appassionati come me, anche ex ciclisti quasi professionisti, e quasi per gioco mi ritrovai a far parte del “Pedal Club asd” di Trepuzzi. Tesserino UISP, dopo le visite mediche di rito, e prime gare di cross country a livello locale e qualcuna a livello regionale con qualche qualche marathon. Il tutto inframmezzato da cadute, infortuni vari – uno serio, serissimo – tante iastime e spesso accompagnato dalla voglia di mollare tutto.

Altro cambio bici, questa volta una Merida O’Nine, in carbonio, nera, una scheggia, la bici più performante che abbia mai avuto, che con una serie infinita di upgrade divenne una specie di Formula1.

Passai dai 107 kg a pesare 79.9 kg (obiettivo che mi ero prefissato perché era mia intenzione comprare una forcella DT-Swiss che aveva come limite di peso 80 kg). Adesso non voglio annoiarvi con i bpm, soglie massime, medie, minime, ecc., ma il mio modo di andare in bici e di tenermi in forma cambiò completamente. E cambiai anche io: ceretta, polpaccio canforato, casco-scarpe-occhiali-guantini-accessori che nemmeno a Pitti Uomo, fino a quando mi resi conto che stavo bene fisicamente sì, ma non era proprio quello che volevo e stavo esagerando un po’, tanto per dirla tutta. C’è da dire però che sia nelle gare che negli allenamenti ho sempre cercato di divertirmi senza pensare né a classifiche (perché ero davvero molto molto scarso) né alla prestazione in sé. Delle gare mi piaceva il prima e il dopo, un po’ meno il durante.

Andai di nuovo da Angelo e gli chiesi di prendere in permuta la Merida per passare ad una bici da corsa, perché iniziarono i dolori alla schiena e alle braccia, troppe botte prese.

Fu un errore gravissimo, ma tant’è! Comprai una Kuota Karma, stupenda, un missile, altro che Formula1. Ma non ci fu mai feeling tra me e lei, mi sentivo insicuro, troppo fragile per i miei gusti quando pedalavo avevo la sensazione che si spaccasse in due da un momento all’altro, insomma troppo delicata con quei copertoncini così esili.

Dopo 6 mesi ritornai da Angelo lasciai la Kuota per prendere di nuovo una mountain bike, una Focus Raven in carbonio. In pratica fu come passare da una BMW coupé ad una Uaz 4×4. E questa volta non sbagliai.

Fui invitato più volte ad iscrivermi alla squadra locale CiclistiCampi, ma, conoscendo il mio caratteraccio (anche questa non è una novità), declinai l’invito.

E non è vero che il ciclismo è uno sport di squadra, il ciclismo è di un individualismo da far paura (affermazione sulla quale molti non saranno d’accordo) e violento quasi quanto il gioco degli scacchi.

Da allora esco in bici quando posso, cioè solo la domenica, ma tutte le domeniche e con qualsiasi condizione meteo, anche con la neve, con la pioggia, con il sole che spacca le pietre.

Perché per me andare in bici è un modo “cu me difriscu la capu”; perché per me andare in bici vuol dire fare una prima sosta “caffè e pasticciotto” e una seconda “coca-cola e rustico”, scattare qualche foto, ridere e giocare, sorridere e scherzare.

E fa bene alla salute (e qui mi tocco… non sono scaramantico, però), perché a 50 anni suonati la mia soglia a riposo è pari a 48 bpm, perché riesco a non andare mai fuori soglia teorica, nemmeno nelle salite più impegnative, nemmeno quando mi metto davanti e tiro, perché, anche grazie all’aiuto dei vari dispositivi tecnologici, resto sempre in zona “brucia grassi” o al limite in zona “aerobica”.

Da qualche mese mi fa ancora più bene, perché anche Giulio si sta appassionando a questo “sport di merda”.

E questo è.

Tigotà

Nel tragitto casa-studio passo da Tigotà, per evitare il dedalo del centro storico della mia ridente cittadina violentato da una serie insensata di sensi unici e divieti (a cui spero qualcuno metta mano quanto prima, ma questa è un’altra storia…).

E oggi pomeriggio mentre ero in macchina parlavo al telefono con mia moglie (avevo gli auricolari! – precisazione per gli amici agenti di polizia municipale, carabinieri e poliziotti che eventualmente leggeranno), quando ad un certo punto mi viene l’infelice idea di chiedere se avesse bisogno di qualcosa.

La conversazione è stata pressappoco questa:

– Annali’ sto passando da Tigotà, devo prendere qualcosa?

– Sì sì, giacché stai andando prendi:

Last piatti al limone confezione da 3;

Ammorbidente Coccolino;

Un asse da stiro in legno, se c’è Foppa Pedretti prendi quello;

Uno stendino da esterni;

Un Vileda Turbo Sistema Lavapavimenti Rotante con Manico Telescopico e Fiocco;

Uno zerbino, anzi no aspe’, uno per l’ingresso e due per la porta del giardino perché uno è da mettere dentro e l’altro fuori;

Una lattina di acqua distillata da 50 litri;

I rasoi per Giulio, Gillette Fusion 5;

Shampoo mantieni colore, shampoo delicato, shampoo antiforfora, shampoo anticaduta, shampoo alla camomilla, e poi quello alle erbe, uno allo zenzero, un altro alla cannella, e alla fragola, all’uva, alle pesche, al kiwi, poi colla di pesce, uova, lievito e farina così ti preparo una crostata di frutta.

– Solo questo?

– Sì.

– Va bene.

p.s.: per quelli che “ma capitano tutte a te” vorrei dire che sì, è vero, è tutto inventato,

da “colla di pesce” fino a “crostata di frutta”.

Capitestu’

  • Sto ascoltando Franco Piersanti, un po’ di buona musica non guasta.
  • E la Sellerio, eh? La Sellerio?
  • Capitestu!
  • Capitestu?
  • Sì, capitestu. Ti spiego: è un’esclamazione in uso dalle mie parti, abbreviazione per rendere meno volgare la frase “capi te stu cazzu”, che in questo caso sostituisce “minchia!”, ah no scusami, significa “è una delle interpreti che preferisco, molto intensa, con una voce ed una sensualità che poche hanno.
  • Ah, ho capito.
  • No, secondo me hai capito questa accezione. Ma capitestu lo si potrebbe usare anche per sottolineare la giustezza di una tesi appena esposta al proprio interlocutore.
  • Spiegati meglio.
  • Se aggiungo la e congiunzione diventa, per esteso “e capi te stu cazzu”, e alla fine di un racconto di un’azione già compiuta. Esempio: ti racconto di aver rimproverato qualcuno che si è dimostrato poco corretto, o di aver fatto valere un mio diritto, “e capi te stu cazzu” conclude la discussione. Non c’è possibilità di replica. Si cambia argomento.
  • Adesso mi è chiaro.
  • None.
  • Come no?
  • E ti spiego ancora.
  • Va bene.
  • Può essere usata anche a scopo pedagogico. Anche in questo caso ti faccio un esempio. Ti dico che hai sbagliato e magari cerco di farti capire quando, come e perché hai sbagliato e ti suggerisco come fare la prossima volta, con tono fermo e deciso aggiungo “e capi te stu cazzu” tu non devi più proferire parola. E devi restare in silenzio.
  • Per oggi basta, e capi te stu cazzu!
  • Ecco, hai capito.

Il sole (2001)

A mia Madre, ai miei fratelli Davide, Manuela, Matteo. 
La loro mancanza mi pesa ogni giorno che passa 

Il sole pomeridiano si lanciava sui massi della chiesa colorata di arancio dai rimandi dorati. Nella piazza del paese solo pochi disgraziati, per lo più sessantenni sciupati dal lavoro di campagna, scuri e stanchi, assuefatti alla monotonia quotidiana fatta di piccoli e quanto mai insignificanti gesti.
Tutto era tranquillo, l’orologio batteva le cinque. Anche le campane sembravano stanche, logore, costrette a battere il tempo, che dalle nostre parti sembra scorrere con un ritmo più moderato.
– Comu sciamu? (trad. “Come state?”)
In un dialetto sforzato, di chi manca da più di quarant’anni dal suo paese natale.
– Sciamu bbueni? (trad. “Va tutto bene?”)
Ma chi caspita era? Chi era quell’individuo, in abito bianco, che con fare di chi si sente in diritto di rompere le scatole a chi vuole essere lasciato in pace, si era “intromesso” in qualcosa che non gli apparteneva?
Era finalmente tornato. Chi, da dove?
A vent’anni, dopo il servizio di leva, che in quel periodo durava 18 mesi e che se eri sfortunato a partire a ottobre di un anno finivi a febbraio di tre anni dopo, era partito con una “valigia” non di cartone plasticato similpelle, ma fatta di cartone da imballaggio, piena di speranze, di olio e vino, per tentare la sorte, magari spinto dalle lusinghe di un lavoro meno umile di quello del contadino a cui sarebbe stato sicuramente dato in sorte.
E così si era ritrovato suo malgrado, ma troppo fiero per tornare indietro da sconfitto, in una terra straniera, che lo aveva accolto da straniero e che avrebbe sfruttato tutta la sua giovinezza per diventare una grande potenza europea: la nazione dell’ordine, delle cose che funzionano, degli emigranti, del “miracolo economico”, della facile fortuna.
Aveva lavorato come manovale prima e muratore poi, per quindici ore al giorno. A comprare le cose che dalle nostre parti nessuno si sarebbe mai sognato di comprare, il pane, la pasta, le verdure, il vino.
Ma alla fine ce l’aveva fatta. Il destino era stato clemente. Finalmente era riuscito a mettere da parte circa 460 milioni, ed era tornato.
Non aveva mai più amato altra donna.
Pensava a ‘Nzina la sua vicina di casa, fanciulla da rispettare come una sorella e magari da portare all’altare pura e innocente, nel corpo e nello spirito.
Qualcuno lo riconobbe, altri chiesero, alla fine la voce si sparse. Era tornato, “lu fiju te lu Ppilu” (trad. “il figlio di Pompilio”) era tornato. Quarant’anni vissuti nella speranza di tornare. E così si ritrovava di nuovo a Campi.
Erano cambiate molte cose, ma la piazza era sempre la stessa, era cambiato solo in nome: non più “Piazza Salandra” ma “Piazza Libertà”.
E adesso? Dove andare!?
Dalla piazza del paese è facile arrivare a Vico Stefanelli, chi è di Campi sa che ci sono circa cento metri. La casa aveva lasciato il posto ad una strada, e pertanto Vico Stefanelli, non era più un “vico” ma una “via”, il nome però, strano come sono strane tante cose che succedono nel nostro paese, era rimasto quello.
E il “Palazzo Galelli”, giù anche quello.
Cancellati i ricordi di gioventù da una ruspa e dal pensiero poco felice di qualche pseudo urbanista, poco attento alla storicità di alcuni luoghi, che aveva sconvolto il centro storico del paese.
E la casa della Nzina? No almeno quella era stata risparmiata, ma era diventata uno studio medico con tanto di targa sopra la cassetta della posta “dott. Pompilio Maci” (sicuramente uno dei nomi più comuni a Campi).
Il figlio della Nzina, ma che strana sensazione, un brivido lo percorse, un rigagnolo di sudore scese dalle sue braccia.
Ma la cosa più importante era lei. Ma dove era, cosa faceva. E cosa aveva fatto in questi lunghi anni.
Il parto era stato travagliato, e la vergogna di quel bambino senza padre non aveva autorizzato il ricovero in ospedale. Una specie di ostetrica-abortista-tuttofare, era riuscita a farla partorire, ma non a salvarle la vita.
E Pompilio dapprima era stato affidato ad una zia e poi preso a cuore da padre Giuseppe dell’Istituto Calasanzio. Dopo aver frequentato il liceo si era trasferito a Napoli e li aveva studiato all’università ed era diventato medico.
Padre Giuseppe, che ai nostri giorni sarebbe stato definito il suo tutor aveva custodito gelosamente una lettera, una “sfoglia” da recapitare a tale Antonio Quarta (anche questo uno dei nomi più comuni a Campi). In quarant’anni non c’era mai riuscito, ma forse era arrivato il momento.
Una Mercedes parcheggiata in Vico Stefanelli fa un certo effetto. Se non fosse altro perché le macchine che passano devono quasi restringersi in condizioni normali, figuriamoci con una macchina in sosta.
Da Mena aveva trovato ospitalità e tante risposte alle sue innumerevoli domande.
La prima cosa da fare sicuramente andare a trovare Nzina, portarle una dozzina di rose pegno di amore eterno e sincero, amore vero. Era splendida, la sua foto malinconica rispecchiava tutta la sua giovinezza. Il singhiozzo fu di preludio al pianto, un pianto dolce, delicato, estraneo alla sua figura di uomo vissuto, duro, temprato dalle vicissitudini e dalla noia.
In un paese piccolo, e pettegolo, le notizie di spargono in men che non si dica.
Padre Giuseppe si sentì liberato.
La lettera che aveva custodito per tutti quegli anni finalmente aveva raggiunto quel tale Antonio Quarta.
L’emozione fu incredibile. Ma anche il senso di biasimo verso se stesso.
Troppe cose erano cambiate, era passato troppo tempo.
E così come era tornato se ne era andato. Tra l’indifferenza di tutti.
Il notaio Arturo de Santis, settantenne curvo ma di aspetto signorile, e vorrei vedere proprio, dopo aver ricevuto un telegramma, aprì un testamento olografo.
“ Io sottoscritto Quarta Antonio, nel pieno….. lascio ogni mio avere e più precisamente la somma di £ 460 milioni, depositata presso la filiale del ……… di ………….. , sul cc n. ….., la casa sita a Monaco ….. , il negozio di ferramenta ….., a mio figlio Pompilio Maci nato a Campi Salentina il …… e residente a ……. “.
Finalmente anche suo figlio avrebbe avuto un padre.
E lui un figlio.
Riccardo Mattei

Ogni riferimento a persone e fatti è puramente casuale.
I nomi, i personaggi e le storie sono frutto della mia fantasia. Se qualcuno si dovesse riconoscere nel racconto, buon per lui.
Ho già scritto la sua biografia.

Android vs IOS – prima parte

Cattura

Voglio raccontarvi un culacchio.

  • Giulio, mi raccomando amore di papà, quando stai a Bristol scatta tante foto e mandamele, poi Giu’ chiamaci e mandaci qualche messaggio.
  • Sì papà, tranquillo.

Il giorno prima della partenza “accidentalmente” il suo telefono cade e muore.

E mo’? Moplen.

Il buon padre di famiglia che è in me, viene fuori – tra la sorpresa degli astanti – e si manifesta sotto forma di generosità e altruismo, mai visti prima.

  • Giulio, tieni il mio cellulare (iPhone 7 immacolato, perfetto, pochi mesi di vita, custodia originale Apple, tante applicazioni a pagamento, tanta musica scaricata da iTunes)
  • Ma sei sicuro?
  • Sine (non chiedermelo di nuovo che sono già pentito della proposta, pensai, cercando di non far trapelare la mia sofferenza)
  • E tu come farai?
  • Tranquillo, risolvo in qualche modo.

“Risolvo in qualche modo” è “Riccardo vai da Mediaworld e comprane un altro”.

Incontro per caso un amico esperto del settore. Gli racconto il tutto e mi dice

  • Anzichè spendere 749 euro compra un Honor 8 lo danno in offerta a 299 €.
  • Ma è Android! (mai avuto cellulari Android perché dal 2010 ho avuto nell’ordine un iPhone 3, un 5, un 6plus, un SE e un 7)
  • Fregatene è octa core, ha 4 giga di Ram, 32 di memoria espandibile con una SD.
  • Ma non è bello come l’iPhone.
  • Guarda che ha la doppia fotocamera, la scocca in vetro unnumerochenonricordocheprecedeunaD, ed è Huawei.
  • No scusa mi ha detto Honor 8 e mo’ mi dici che è Huawei, decidite frate miu.
  • Tieni presente la Toyota e la Lexus?
  • Sì.
  • La Toyota è la Huawei, la Lexus è la Honor. La stessa cosa.
  • Va bene.

Mi convince e vado a comprate ‘sto benedetto Honor 8.

Siete mai passati da IOS ad Android o viceversa? Ho nominato tanti nuovi Santi, che Giovanni Paolo II al mio cospetto è un dilettante.

Arriviamo ai nostri giorni.

Cucinuma lu Rocco, saputo del mio travaglio interiore, mi dice

  • Ho un iPhone 6 che non uso, lo vuoi?
  • Ro’ che cazzo di domande fai? Certo che lo voglio, mena e manisciate puru.
  • Domani te lo porto.

Tutto prisciato, il giorno dopo, spengo l’Honor 8 estraggo la sim, la inserisco nell’iPhone e, e parte la seconda ondata di Beatificazioni e Santificazioni [le maiuscole a cazzo sono un omaggio ad una mia amica, quindi sono ricami e non errori, meh (e il meh è un altro omaggio ad un’altra amica)].

Rifaccio tutto al contrario e torno quindi all’Honor 8.

Nel frattempo quegli stronzi di Cupertino organizzano l’evento dell’anno, che io e Giulio guardiamo da casa in diretta, con la stessa devozione di chi va a Medjugorje per l’apparizione della Madonna.

Mi innamoro dell’iPhone 8.

Lo tradisco dopo mezz’ora con l’iPhone X (in America la legge Fiano non è applicabile, so che un paio di amici, se mai leggeranno – per combinazione omonimi tra loro – staranno sorridendo).

Per concludere, non sono ancora considerato emulo di Karol Wojtyla solo perché per il 3 novembre mancano 44 giorni.

Stay tuned.

Briatore e la sagra delle uova ‘ndilissate.

Leggendo i vari post su #Briatore, apparsi ieri su Facebook, ho capito che:

– Briatore vuole occupare, con il suo stabilimento extra-super-dipiùLusso, tutta la costa Salentina da Punta Prosciutto a Lindinuso;
– Briatore vuole radere al suolo 4 comuni dell’entroterra Salentino e farne un eliporto, un aeroporto e un porto deviando l’Adriatico, lo Ionio, il Tigri e l’Eufrate.
– Briatore vuole proporsi come nuovo Assessore alle Attività Produttive, al Turismo e alle Infrastrutture della Regione Puglia e della Regione Basilicata che sarà annessa, in modo da dettare la sua idea di sviluppo.
– Briatore vuole diventare Presidente delle A.P.T. delle province di Lecce, Brindisi e Taranto. e riscrivere il calendario delle sagre paesane, comprese quella delle uova ‘ndilissate e delle patate zuccarine.
– Briatore vuole rinchiudere tutti i nativi salentini in riserve come successe con gli Indiani d’America e farli circolare liberamente soltanto nel periodo che va da ottobre a maggio.
– Briatore vuole diventare il prossimo Maestro Concertatore della Notte della Taranta 2017, e sostituire la pizzica con la musica celtica.

Mentre i Politici e gli Imprenditori locali, da dietro un PC (così come sto facendo io), si stanno adoperando per risolvere tutti i problemi del Salento.
Stiamo messi male, molto male. Ma questo lo sapevamo già.

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